Il Cerro Colorado, l’arrampicata trad, la solitudine, la gioia, i licheni e i condor… la quarta puntata di Alpinismo Vagabondo di Giovanni Zaccaria e Alice Lazzaro arriva dalla Regione di Aysén – Patagonia Cilena, è una lettera che sa di vento che modella le nuvole, di avventura e viaggio.
Caro Papà, è notte, ma il forte vento che urla qui fuori fa ballare la tenda e mi tiene sveglia. Non so come Gio riesca a dormire affianco a me. Almeno lui sarà fresco per la discesa di domani. Mi è venuta voglia di scriverti per raccontarti un po’ di questi giorni…ti piacerebbe un sacco questo posto! È veramente unico.
Il Cerro Colorado si erge maestoso tra colline verdi, senza vantarsi della sua bellezza e particolarità: quasi come un organo, è formato da tante canne prismoidali di basalto che, una accanto all’altra, costruiscono linee perfette di fessure e diedri. Per ammirarlo in tutta la sua grandezza abbiamo dovuto camminare per tre ore tra le colline, seguendo solamente tracce di animali, dal rifugio di due pastori. Sono stati ospitali e gentili, ma il dialetto stretto e l’abitudine a vivere lontano da altri esseri umani ha reso difficile la comunicazione. Poi per cinque giorni abbiamo vissuto qui: io, Gio e la tendina accanto ad una sorgente. A tenerci compagnia solo le risate di guanachi (lama patagonici) e il volo dei condor…
I condor! Papà, mi hanno volato vicinissimo! Che scena! Stavo salendo un tiro da seconda e mentre Gio dall’alto mi assicurava, due condor hanno cominciato a volteggiare sopra di noi. Poi sono diventati quattro, sei, alla fine otto condor enormi ci giravano attorno. Io ridevo, ma avevo paura! Urlavo che non ero ancora morta, che non ero ancora cibo per loro. Gio fotografava, sghignazzava e non assicurava che mangiassero solo carogne!
La solitudine che si respira ci fa vivere in una dimensione irreale… a volte ci dimentichiamo che siamo a migliaia di chilometri da casa… forse perché i gesti, le emozioni e il sentimento di libertà che mi pervadono sono così simili su tutte le montagne. A stretto contatto con la natura sento che mi riapproprio di ritmi più veri, che avevo un po’ dimenticato nella frenetica vita di città. Sai, è anche un po’ colpa (o merito?) tua se sono qui a inseguire creste di montagne sconosciute e a sognare avventure in terre misteriose. Sei tu che mi svegliavi dolcemente prima dell’alba per andare a vedere i camosci, tu che mi aiutavi a legare ben stretti gli scarponi, tu che mi hai insegnato i comandi della cordata. Tu, con l’enorme collezione di libri e riviste di montagna, con i racconti di vita all’aria aperta, ma soprattutto con l’esempio, mi hai fatto apprezzare il sudore lungo i sentieri, il vento e la neve anche se arrivano al momento sbagliato. Hai fatto crescere in me la voglia di scoprire cosa si nasconde oltre l’orizzonte.
Qui si arrampica trad, ma i movimenti non sono semplici e i gradi abbastanza severi. Mi piacerebbe vedere come ti muovi tu che ami camini e diedri! Da lontano sembra che le linee di fessure siano perfette, proteggibili ed eleganti. Poi, quando sei lì, ti senti meno elegante e meno protetto, le mani si sfregano dentro le fessure fino a sanguinare. Quando la canna si fa più verticale e non ci sono più appoggi, ti spingono verso l’alto solo attrito e volontà. Comunque, durante questi giorni, siamo abbastanza migliorati e quando mi accorgevo di aver incastrato bene un piede o di aver fatto diversi metri tutti in Dülfer, mi sorridevo di nascosto. Non si finisce mai di imparare e il corpo gode nello scoprire nuovi equilibri ed impensati movimenti.
Il secondo giorno Gio è volato. Mi sei venuto in mente, ho ricordato all’improvviso quel tuo volo sulla via Dibona. Ti ricordi? Era il primo volo che trattenevo in montagna. L’appiglio ti è rimasto in mano e anche il friend è venuto via… che paura! Ho fatto una tremante asola e contro asola, ci siamo ricongiunti ed era già il momento per me di ripartire da prima. Ne è passato di tempo da quel giorno e anche qualche altro volo. La sensazione di avere la vita di qualcun altro tra le mani e non poter fare più di tanto, però, è sempre fortissima. Scalavamo una via aperta all’inizio di quest’anno, era ovvio che fosse ancora sporca. Insomma, dopo trenta metri Gio è volato. Per fortuna aveva messo un piccolo nut perché il friend sotto sarebbe venuto via. Una frazione di secondo con il fiato sospeso e un rumore per niente confortante, subito abbiamo realizzato che la mezza corda che aveva tenuto il volo si era scamiciata, impigliandosi su di una scaglia marcia e tagliente. “Mais Sorte que Juizo” (Più fortuna che giudizio) si chiama quella via maledetta… a volte più che al grado bisognerebbe prestare attenzione al nome!
Si possono fare molti monotiri e il primo giorno li abbiamo usati per abituarci allo stile di scalata. Ma sai bene che a me e Giovanni piace arrivare in cima alle montagne. Questo Cerro Colorado, quindi, l’abbiamo salito in cima ben tre volte per le sue tre differenti pareti. Sai anche che noi abbiamo una certa predilezione per le discese al buio… e così la prima via per la cima (The Daley Splitter + Fingers of Fate, 180mt, 6b) l’abbiamo attaccata sulla Repisa Central alle cinque di pomeriggio. Abbiamo poi utilizzato la tecnica, ormai perfezionata, di “una frontale per due”, cercando il sentiero (inesistente) di ritorno tra massi instabili e ghiaioni.
Il giorno dopo ci siamo concessi un po’ di riposo: abbiamo fatto yoga, stretching, letto della Patagonia tra Chatwin e Sepulveda, mangiato e dormito… insomma recuperato le energie. Le altre due salite in cima le abbiamo fatte ieri e oggi.
Ieri ci siamo fiondati sulla via Blown Away alla Prua (200mt, 6c+). È la prima via aperta sulla parete, la guida sentenzia: “strenuous crack climb”… ed è stato davvero così. L’abbiamo sudata dall’inizio alla fine! La linea segue lo spigolo, che sembra davvero la prua di una nave, e sale sempre dritta fino in cima. La roccia è compatta… anche troppo! Spesso ti trovi incastrato tra le canne, senza più appoggi né appigli, a chiederti com’è che sei finito lì.
Oggi invece abbiamo salito El Escudo, in teoria la parete con roccia migliore, di un caldo colore rossastro. Per arrivarci bisogna salire sessanta metri di zoccolo… sì, lo chiamano El Zòcalo, ma è un tiro di 6b. Abbiamo passato circa un’ora alla base dello Scudo, con gli occhi che saltavano tra la foto nel telefono e la parete, cercando dei punti di riferimento tra infinite canne parallele e verticali, rotte solo da qualche piccolo tetto. Con molta calma e pazienza abbiamo individuato la linea della via (Yuyitzu, 160mt, 6b+) Aperta l’anno scorso, anche questa non aveva tracce di magnesio né segni di molte ripetizioni… ormai avrai capito che questo luogo è frequentato solo dagli apritori e pochi altri. Le difficoltà principali sono quindi trovare una strada sensata e abbastanza sicura tra le canne, spostandosi da una all’altra al momento giusto, ovvero prima che le fessure diventino cieche. Gio è stato bravissimo, come al solito, e nonostante i licheni negli occhi, le scaglie marce e i camini improbabili, ci ha condotti per la terza volta in cima.
Lassù mi sentivo piccolissima di fronte alla vastità del panorama deserto. In cielo quelle nuvole speciali che ho visto solo qui, sinuose curve lavorate dal vento. Che silenzio surreale, che respiri profondi. Allora vi ho pensato ancora una volta, ognuno preso dalle proprie sfide della vita. Ho regalato quella visione di pace e quell’istante di felicità alle persone che amo: spero vi arrivi un po’ dell’energia che ho percepito in quel momento.
Ora è meglio che io provi ad ignorare il vento e riposi un po’. Domani dovrò affrontare una discesa controvento con il saccone pesante sulle spalle, la conversazione e le tortas fritas fatte in casa dai pastori, e poi via… ci immetteremo dal piccolo Chile Chico sulla Carretera Austral, per proseguire ancora il viaggio verso sud.
Un abbraccio di buonanotte, o meglio per voi ormai di buongiorno!
P.S.: Saluta tanto la mamma e dille di non preoccuparsi troppo per noi!
Alice (e Giovanni) Cerro Colorado, 1 dicembre 2016
Ringraziamo per il supporto:S.C.A.R.P.A.-Climbing Technology- Beal
DIARIO ALPINISMO VAGABONDO
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